Psicoterapia e Scienze Umane


Rubrica "Casi clinici"

 

L'orientamento sessuale del terapeuta: in or out of the closet?

[Versione completa del commento a: "Il caso Sebastiano (la self-disclosure del terapeuta omosessuale con un paziente omosessuale)", di Antonino Firetto, pubblicato nella rubrica "Casi clinici" di Psicoterapia e Scienze Umane, 2011, XLV, 4: 564-573; la versione abbreviata di questo commento è a pp. 573-576]

 

Vittorio Lingiardi
Facoltà di Medicina e Psicologia, Sapienza Università di Roma,
Via dei Marsi 78, 00185 Roma, e-mail <vittorio.lingiardi@uniroma1.it>

 

 

«Possiamo anche metterci le mani davanti agli occhi, ma questo non ci aiuterà comunque a scomparire» (Owen Renik, 1995, p. 34)

«Una delle ragioni per cui gli analisti storicamente hanno evitato un'indagine diretta sull'esperienza che i pazienti fanno della soggettività dell'analista è che avevano capito che seguire questa linea di ricerca avrebbe inevitabilmente portato all'autosvelamento» (Lewis Aron, 1996, p. 99)

Il caso presentato da Antonino Firetto si presta ad essere discusso da molti punti di vista. Per esempio quello del rapporto tra psicoterapia e fede religiosa, a maggior ragione quando i temi implicati riguardano, come nel caso del paziente qui discusso che è un sacerdote, crisi vocazionale e sessualità. Oppure quello della scelta del terapeuta da parte di una persona omosessuale: oggi molte persone gay e lesbiche, quando decidono di iniziare una terapia, chiedono informazioni sull'atteggiamento del terapeuta nei confronti dell'omosessualità. Ciò in buona parte dipende, ed ecco un altro possibile punto di vista, dalle letture più o meno patologizzanti che molta psicoanalisi ha riservato all'omosessualità (immaturità, narcisismo, perversione). Il caso di Sebastiano potrebbe naturalmente anche essere discusso da una prospettiva evolutiva, soffermandosi sul ruolo giocato dal minority stress (Meyer, 1995; Lingiardi, 2007a) e in particolare dall'omofobia interiorizzata, nello sviluppo psichico e relazionale del paziente. Ritengo però che la novità di questo contributo consista nella presentazione che l'autore fa di sé come "terapeuta omosessuale": un'opzione ormai piuttosto diffusa nel mondo psicoanalitico anglosassone, ma ancora inconsueta nel nostro, più incline alla regola del "don't ask, don't tell". Dunque Firetto compie una doppia self-disclosure: al paziente e ai colleghi.

Credo che la formazione junghiana di Firetto abbia giocato un ruolo importante in questa scelta per almeno due motivi: il primo è che la comunità junghiana ha mantenuto, fin dalle sue origini e diversamente dalle comunità freudiana e kleiniana, un atteggiamento relativamente poco stigmatizzante nei confronti dei candidati omosessuali (Hopcke, 1989; Lingiardi, 1997, 2001; Lingiardi & Capozzi, 2004); il secondo è che l'approccio junghiano non ha mai perseguito l'idea dell'analista come "schermo opaco". Come scrive Massimo Giannoni (2011),

«un fenomeno come l'enactment, oggi al centro del dibattito nella psicoanalisi relazionale, era ed è, nell'analisi junghiana, un evento possibile, quasi inevitabile, e non un errore di tecnica. E nell'idea junghiana della mutualità analitica anche la self-disclosure aveva già diritto di cittadinanza nel setting. A questo punto vale la pena di ricordare la vignetta clinica in cui un'impasse analitica si risolve nel momento in cui Jung (1935) racconta alla paziente un proprio sogno che la riguarda, operando quello che oggi chiameremmo "autosvelamento": "Ci sono dei casi – dice Jung – in cui i problemi in terapia non vengono esclusivamente dal paziente, ma anche da un erroneo atteggiamento del terapeuta. In questi casi, suggerisce Jung, il terapeuta deve cambiare il proprio punto di vista per non ferire ulteriormente il paziente – oggi diremmo che deve sapersi sintonizzare empaticamente sul punto di vista del paziente. Si tratta di un'affermazione estremamente attuale, legata all'idea che un'impasse analitica non è dovuta solo alla resistenza del paziente, ma anche a un errato atteggiamento, più o meno conscio, dell'analista» (p. 205).

Le osservazioni di Giannoni offrono la giusta cornice alla lettura del caso presentato da Firetto che mi accingo a scrivere e che riguarderà in particolare il tema della self-disclosure dell'orientamento sessuale del terapeuta nel contesto di una psicoterapia. Un'"azione terapeutica" che l'autore descrive con queste parole:

«Decisi di dirgli che potevo comprenderlo per due motivi: sia perché anch'io vivevo la sua stessa condizione di "diversità", sia perché ritenevo l'omosessualità il livello più superficiale della sua sofferenza, che aveva radici ben più profonde su cui potevamo lavorare» (Psicoterapia e Scienze Umane, 4/2011, p. &&).

Provando a mettermi nei panni di Firetto, leggerei così la sua comunicazione al paziente: "Di fronte a una impasse della terapia ho pensato/sentito che c'era bisogno di un avvicinamento empatico e di un movimento intersoggettivo. Il modo che ho trovato per esprimere tale avvicinamento e rilanciare l'alleanza terapeutica è stato una doppia comunicazione personale e clinica: sono omosessuale come lei e dunque conosco in prima persona molte delle cose di cui mi parla, ma penso che sarebbe un errore far coincidere la sua sofferenza con la sua omosessualità. La sua sofferenza viene da lontano e più che dal suo orientamento sessuale sembra discendere dalla sua storia familiare e dal modo in cui si è organizzata la personalità. Limitarsi a ‘maledire' l'omosessualità rischia di essere un "alibi" per non occuparsi davvero di sé. La terapia può aiutarla a capire meglio la sua storia, le sue relazioni, le sue emozioni e le sue paure, naturalmente anche quelle connesse all'omosessualità" (Firetto rinforza un punto di vista già espresso dal paziente: «[Sebastiano] crede che i suoi problemi scaturiscano non solo dalla sua omosessualità, ma soprattutto dalla sua infanzia», p. &&).

Direi dunque che, nel caso presentato, Firetto ha inteso la self-disclosure non tanto come una comunicazione di contenuti controtransferali (Aron, 1996; Maroda, 1991, 1997), ma come un'«affermazione del terapeuta che rivela qualcosa di personale su di sé» (Hill & Knox, 2002, p. 255; Knox & Hill, 2003) al fine di superare una impasse, incrementare l'alleanza e umanizzare la relazione terapeutica. La disclosure è dunque accompagnata dal punto di vista del terapeuta sulla storia clinica: rivolgendosi ai significati, più che alle origini, della sessualità, Firetto rinuncia alla ben nota e zelante ricerca delle "cause" dell'omosessualità, evitando così di cadere in fuorvianti teorie che, in apparenza eziologiche, finiscono inevitabilmente per essere eziopatologiche (Mitchell, 1978). La depatologizzazione dell'omosessualità in quanto tale (il che ovviamente non esclude che un individuo omosessuale, così come un eterosessuale, sia suscettibile a ogni forma di disturbo mentale e della personalità) ha infatti portato i clinici a ridimensionare le loro aspettative sul perché uno/a è omosessuale, considerando invece più rilevante parlare con il/la paziente di come sono le sue relazioni e di come si esprime la sua omosessualità. Ancora con Jung (1928): «Non domandate che cosa uno faccia, bensì come lo fa» (p. 92).

Il mio commento al resoconto clinico di Firetto seguirà questo percorso: prima una breve introduzione al tema generale della self-disclosure, con cenni alla ricerca empirica e alla teoria clinica; poi una riflessione su quella particolare self-disclosure che riguarda l'orientamento sessuale dell'analista; infine un commento alle caratteristiche della disclosure di Firetto al paziente Sebastiano. Inevitabilmente mi troverò ad affrontare un tema sempre più spesso dibattuto (vedi per esempio Argentieri, 2010; Frommer, 1994, 1999; Guthrie, 2006; Herlands, 2006; Isay, 1991; Lingiardi & Luci, 2006): i pazienti omosessuali è meglio inviarli ad analisti omosessuali?

 

Rivelarsi, svelarsi, parlare di sé, condividere

«Uno dei maggiori ostacoli a pensare e scrivere della tecnica relazionale contemporanea in generale è che dobbiamo ancora elaborare un modo per trattare compiutamente sia l'espressività sia la riservatezza nella teorizzazione relativa alla tecnica clinica» (Stephen Mitchell, 1997, p. 143)

Anche se la sua potenzialità terapeutica, per esempio nella risoluzione delle impasse e nella riparazione delle rotture, è riconosciuta, quello della self-disclosure rimane un tema controverso (Gerson, 1996; Bloomgarden & Mennuti, 2009; Wachtel, 2011). In una recente rassegna, Henretty & Levitt (2009) illustrano le posizioni di diversi autori, considerandole da più angolazioni: contenuto della comunicazione (tra le variabili sono contemplate anche self-disclosure relative al genere e all'orientamento sessuale), timing, motivazioni, modalità, ecc.

Stando alla letteratura empirica, la self-disclosure rappresenta uno tipo di intervento poco utilizzato (circa il 3.5% della totalità degli interventi, secondo Hill & Knox, 2002), ma utilizzato dalla stragrande maggioranza dei clinici: circa il 90% dei terapeuti riferisce di aver "parlato di sé" ai pazienti (Mathews, 1989; Pope, Tabachnick & Keith-Spiegel, 1987; Edwards & Murdock, 1994).

Nel tentativo di mettere ordine in un argomento così delicato, Hill & Knox (2002, p. 262) provano a fornire delle linee guida: il terapeuta dovrebbe fare pochi interventi di self-disclosure; gli argomenti più idonei per una self-disclosure riguardano il background teorico-tecnico del terapeuta, quelli meno idonei riguardano le proprie pratiche sessuali e le proprie credenze; il terapeuta dovrebbe utilizzare le self-disclosure per incrementare l'alleanza, validare un'esperienza del paziente, offrire un modo alternativo di pensare o agire; il terapeuta dovrebbe evitare di fare self-disclosure che spostino il focus dal paziente o interferiscano con il processo della seduta; l'efficacia delle self-disclosure sembra maggiore quando vengono proposte in risposta a una disclosure del paziente; il terapeuta dovrebbe sempre monitorare con attenzione le reazioni del paziente alle proprie self-disclosure; l'utilizzo delle self-disclosure non sembra necessario con tutti i pazienti.

Nel famoso articolo "On the question of self-disclosure by the analyst: error or advance in technique?", Theodor Jacobs (1999) definisce la self-disclosure «un termine ampio e aspecifico che comprende un'enorme varietà di comportamenti autorivelatori dell'analista», che possono «variare da un'unica parola in risposta a una domanda, a un'estesa rivelazione di aspetti di vita personali» (p. &&). Per questo, ciascun caso di self-disclosure va valutato in base al contenuto, alle modalità, al contesto relazionale e agli effetti sul processo. Ma non è questa la sede per elencare i numerosi tentativi di "classificazione" degli interventi di self-disclosure, per cui rimando alla nutritissima letteratura in proposito (si vedano, per esempio, i parametri suggeriti da Cozby [1973] – ampiezza e quantità di informazioni rivelate, profondità o livello di riservatezza dell'informazione, durata della rivelazione – o la suddivisione proposta da Hill & O'Brien [1999] in disclosure di fatti, sentimenti, insight, strategie; il primo a collegare il concetto di self-disclosure al processo terapeutico fu Sidney Jourard [1964, 1971] il quale si schierò a favore della natura reciproca della self-disclosure. Un elenco particolarmente interessante dei "vari tipi di autosvelamento" lo troviamo in Aron [1996, pp. 282-288]). Mi limito a ricordare i tre tipi di self-disclosure descritti da Jacobs: la messa in atto inconsapevole di comportamenti "rivelatori" verbali e/o non verbali; la condivisione consapevole di alcune esperienze soggettive; il fornire risposte a domande personali fatte dal paziente. E' evidente come la disclosure dell'orientamento sessuale del terapeuta possa avere a che fare con ciascuna di queste tre forme.

Il tema della self-disclosure, già presente nel dialogo psicoanalitico tra Freud e Ferenczi, riaffiora in letteratura alla fine degli anni 1980 grazie ai contributi di Aron (1996, 1997), Ehrenberg (1995), Jacobs (1999), Maroda (1991, 1997), Renik (1995, 1999). Ma è stata soprattutto la cosiddetta svolta relazionale a rivelare il carattere ingenuo del mito dell'analista anonimo e più in generale della cosiddetta "neutralità analitica": «postuliamo – scrive Aron (1996) – che l'analista non sia mai né neutrale né anonimo, ma sveli sempre qualcosa di sé e in realtà suggerisca (e co-costruisca) sempre qualcosa che riguarda la sua relazione con il paziente» (p. 271). Il dialogo creatosi attorno all'opportunità o meno di utilizzare questo tipo di intervento è in sostanza riconducibile al dibattito tra clinici relazionali, che vedono la soggettività del terapeuta (il suo mondo interno, la sua storia personale) come innegabilmente appartenente al processo terapeutico, e autori di orientamento più classico che sostengono condotte terapeutiche più neutrali.

Secondo Renik (1995), un atteggiamento anonimo e neutrale non solo è impraticabile, ma anche poco auspicabile: «Scegliendo di non lasciar trapelare ciò che ha in mente, l'analista non si trasforma certo in uno schermo bianco (…) piuttosto, agendo senza dare spiegazioni, presenta essenzialmente al paziente un rebus» (p. 47). Non si tratta, dunque, di decidere come rendersi il più possibile invisibili, ma di come gestire l'inevitabile condizione di self-disclosure. Del resto, la proverbiale "riservatezza" della professione psicoanalitica è stata ampiamente sfidata dall'avvento della "googlabilità" (Drescher, 2011; Lingiardi, 2008, 2011).

Questo ovviamente non significa che l'analista debba dire tutto ciò che gli viene in mente. Ogni esplicitazione di sé dovrebbe essere il risultato di un gesto clinico, contemporaneamente spontaneo e pensato: «Una psicoanalisi relazionale matura non ci dice che cosa fare, ma piuttosto ci dà un modo per pensare su ciò che stiamo facendo» (Greenberg, 1997, p. 340).

 

L'orientamento sessuale dell'analista

«Caro Ernst, abbiamo considerato la sua domanda concernente l'eventuale associazione di omosessuali, e non siamo d'accordo con lei. (…) Non possiamo escludere tali persone senza avere sufficienti ragioni d'altro tipo, così come non possiamo essere favorevoli a che siano perseguite dalla legge. Ci sembra che in simili casi una decisione dovrebbe dipendere da un esame accurato delle altre qualità del candidato» (Freud, 1921, cit. in Abelove 1985, p. 31; Bayer, 1981, p. 22)

Chiarisco subito che non credo sia utile che un terapeuta "si presenti" con un'etichetta sessuale – gay o etero che sia. Come ogni altra self-disclosure, anche la decisione di tacere o comunicare il proprio orientamento sessuale è una scelta clinica ben precisa, di cui va pensato il senso e valutato l'impatto. Che cosa comporta il silenzio, e cosa la rivelazione? [vedi Nota 1 in fondo all'articolo] In quali dinamiche di transfert, controtransfert, alleanza terapeutica o relazione reale si inserisce la self-disclosure? E come si combinerà con il genere e l'orientamento (uomo, donna, etero, gay, lesbica, bisessuale, transessuale) sia del paziente sia del terapeuta?

Tuttavia sarebbe ingenuo e poco realistico pensare che non vi siano segni, più o meno rivelatori, dell'identità del terapeuta: una fede al dito, un libro sulla scrivania, un quadro alla parete, l'intervento a un convegno, una presa di posizione pubblica, ecc. Tali segni, finché eterosessuali e eteronormati, sono stati poco o nulla stigmatizzati.

Fino ai giorni nostri, l'eventualità di una disclosure della propria omosessualità non è mai stata presa in considerazione per un motivo molto semplice: si dava per scontato che l'analista fosse sempre eterosessuale. Nonostante la famosa lettera del 1921 di Freud a Ernst Jones, l'espressione "psicoanalista omosessuale", per lo meno nelle intenzioni normative della psicoanalisi, è sempre stata un ossimoro. Ecco la testimonianza di uno stimato membro dell'American Psychoanalytic Association che aveva iniziato il training psicoanalitico nel 1967:

«Non si poteva essere gay e diventare psicoanalista (...) era possibile essere uno psicoanalista omosessuale in segreto – se si aveva un po' di fortuna, molta discrezione e un analista didatta che non lo raccontava all'Istituto. Ma non era possibile essere uno psicoanalista apertamente gay» (Roughton, 2002, p. 32).

Paul Moor (1985, 1989), i cui interventi sono stati più volte pubblicati su Psicoterapia e Scienze Umane, racconta di come il suo analista Irving Bieber continuasse a rifiutarsi di riconoscere la sua omosessualità e, nonostante Moor continuasse a ripetergli che si sentiva attratto dai maschi, lo rassicurasse dicendogli che "doveva fidarsi": la sua eterosessualità, grazie all'analisi, sarebbe un giorno emersa (Moor, 2002).

Non molto diverso, per tutto il Novecento, il panorama italiano (Capozzi & Lingiardi, 2003; Lingiardi & Luci, 2006). Negli ultimi vent'anni, però, una crescente letteratura di analisti gay e lesbiche, per lo più anglosassoni (tra i quali Corbett, 1993; Drescher, 1998; Hopcke, 1989; Isay, 1989, 1996; Leli, 2002; Lewes, 1988, 2002; Magee, Miller, 1997; Phillips, 1998, 2003; Roughton, 2001 – a cui vanno aggiunte alcune illustri revisioni autocritiche, per esempio Kernberg, 2002; McDougall, 2001; Schafer, 1995), ha dato voce a un capitolo finora muto della psicoanalisi. Come le analiste donne, negli anni 1940, hanno iniziato a dire la loro sulla sessualità femminile, fino a quel momento raccontata da analisti uomini, gli analisti gay e lesbiche, a partire dagli anni 1980, hanno iniziato a dare voce alle omosessualità, fino a quel momento raccontate da analisti e analiste eterosessuali. Un'ottima scelta di testi, alcuni dedicati in particolare all'"analista omosessuale" si trova nel volume, curato da Bassi & Galli (2000), L'omosessualità nella psicoanalisi.

L'abbattimento dell'omofobia psicoanalitica raggiunge un importante traguardo nel 1991, con l'emissione di uno statement in cui l'American Psychoanalytic Association (1991) esorta a selezionare i candidati al training in base alle loro qualità e capacità e non al loro orientamento sessuale («L'American Psychoanalytic Association si oppone e deplora ogni discriminazione pubblica o privata nei confronti di individui, maschi o femmine, con orientamento omosessuale. (...) I nostri istituti sono tenuti a selezionare i candidati al training in base al loro interesse per la psicoanalisi, talento, preparazione culturale, integrità psicologica, analizzabilità e sensibilità alla formazione e non in base al loro orientamento sessuale. I nostri istituti sono tenuti ad applicare queste regole nella selezione dei candidati al training e a ogni altra posizione, incluse le funzioni didattiche e di supervisione»; adopted May 1991; amended May 1992). Sono del 2009 le guidelines dell'American Psychological Association sulle «appropriate risposte affermative al disagio relativo all'orientamento sessuale» (vedi le pagine Internet www.noriparative.it e www.apa.org/pi/lgbt/resources/therapeutic-response.pdf). Dove il punto non è ovviamente "orientare" (in senso omo o etero) la sessualità degli incerti, ma avere le informazioni e gli aggiornamenti scientifici necessari per non commettere atti di ignoranza o peggio crudeltà (ahimè non poche nella storia dei trattamenti psicoanalitici), e promuovere davvero il benessere psichico e relazionale.

Soprattutto nel mondo anglosassone, ma ultimamente anche nei paesi di cultura latina, sono sempre meno sia gli analisti omosessuali che preferiscono tenere "nascosto" il proprio orientamento sia gli analisti eterosessuali che esprimono diffidenza nei confronti dei colleghi (dichiaratamente) gay o lesbiche (una ricerca su un campione di psicoanalisti italiani [Capozzi, Lingiardi & Luci, 2004; Lingiardi & Capozzi, 2004] prevedeva, tra le altre, queste tre domande: a. Penso che un/a analista omosessuale possa essere un/a valido/a collega; b. penso che un/a analista dichiaratamente omosessuale possa essere un/a valido/a collega; c. penso che un/a analista dichiaratamente omosessuale possa svolgere funzioni di training. «Anche se – leggiamo nel commento ai risultati – a livello descrittivo un incoraggiante numero di psicoanalisti appartenenti all'International Psychoanalytic Association [IPA] ha espresso un atteggiamento non discriminatorio verso i colleghi omosessuali, tuttavia l'analisi dei dati ha rivelato una differenza significativa tra le società IPA e quelle junghiane, con le prime più discriminanti delle seconde. Tale atteggiamento di discriminazione diventa più evidente quando il collega in questione è dichiaratamente omosessuale, e ancor di più se ha funzioni di training» [Capozzi, Lingiardi, Luci, 2004, p. 354]).

 

Cause e conseguenze della self-disclosure del terapeuta omosessuale

«Non ho pregiudizi contro l'omosessualità (...) ma gli omosessuali sono essenzialmente persone sgradevoli indipendentemente dal fatto che i loro modi siano piacevoli o spiacevoli (...). [Essi mostrano] un misto di superbia, falsa aggressività e piagnisteo (...). L'unico linguaggio che il loro inconscio comprende è la forza bruta (...). E' raro trovare tra di loro un Io che sia intatto» (Edmund Bergler, 1956, pp. 26-29)

«Si rivolgono a un analista gay perchè preoccupati che i pregiudizi di un terapeuta eterosessuale potrebbero interferire con la possibilità di essere trattati con la dovuta neutralità» (Richard Isay, 1991, p. 199)

Se vogliamo riflettere sui percorsi e le implicazioni cliniche della self-disclosure dell'orientamento omosessuale del terapeuta, dobbiamo ricordare come la progressiva depatologizzazione dell'omosessualità abbia implicato uno spostamento dell'attenzione dai fattori ambientali come "promotori patogeni" dell'omosessualità al contesto ambientale come "ostacolo patogeno" nello sviluppo psicologico di gay e lesbiche. In questo senso potremmo dire che l'"oggetto di studio" è passato dall'omosessualità all'omofobia. E' infatti aumentata la consapevolezza clinica degli effetti traumatici che il pregiudizio può avere sulla crescita emotiva e cognitiva delle persone gay e lesbiche, e gli psicoanalisti hanno iniziato a riflettere su quanto possa essere debilitante per le persone omosessuali la "cultura del silenzio" (Blechner, 1993, 1955; Lingiardi, 1997, 2007b).

Nel corso dello sviluppo di gay e lesbiche, la capacità di sentirsi a proprio agio, di vivere serenamente la sessualità e di formare relazioni intime è frequentemente, se non costantemente, minacciata da sentimenti di indadeguatezza, vergogna e colpa. Tali sentimenti, che implicano difficoltà nella regolazione dell'autostima (e quindi dell'ansia, dell'umore, ecc.) si manifestano anche nel corso di terapie di pazienti gay con buoni livelli di adattamento e integrazione sociale. L'analisi di questo nucleo, che possiamo definire omofobia interiorizzata (e che presenta elementi in comune con la vecchia diagnosi DSM-III di "omosessualità egodistonica") costituisce un passaggio obbligato per l'acquisizione di un'identità integrata e il raggiungimento di relazioni interpersonali soddisfacenti. In molti casi, una fede religiosa e il desiderio e/o la pressione a conformarsi ai valori e ai precetti della propria Chiesa, in particolare quando questa definisce l'omosessualità un disordine morale (Congregazione per la Dottrina della Fede, 1986), può facilitare l'interiorizzazione dell'omofobia e la difficoltà ad accettarsi come omosessuali (Adamczyk & Cassady, 2009; Balkin, Schlosser & Levitt, 2009; Davidson, 1999; Herek, 2007; Herek et al., 1998; Herek, Gillis & Cogan, 2009; McNeill, 1976; Wagner et al., 1994; Whitley, 2009). In questi casi, infatti, viene prima il precetto o il vissuto? Una posizione di maggior accoglienza da parte della Chiesa cattolica (come del resto altre Chiese – la valdese, la anglicana – hanno iniziato a fare), sicuramente attenuerebbe la ferita dell'egodistonia e la croce di quel minority stress che segna la vita di molte persone omosessuali credenti.

Firetto ipotizza che uno dei conflitti che Sebastiano sente come "irriducibili" sia

«tra la sua vera identità di omosessuale e il suo ruolo di prete che gliela ‘nasconde'. A causa di [tale conflitto, Sebastiano] si sente pieno d'odio per il mondo, in quanto percepisce che aderire al suo ‘vero Sé' è una condizione di sofferenza rispetto al ruolo imposto dall'appartenenza alla comunità religiosa» (p. &&).

E' noto che l'interiorizzazione dell'omofobia è alla base di molte richieste di "terapie riparative" o di "riorientamento sessuale" (Bartlett, Smith & King, 2009; Lingiardi & Nardelli, 2008; vedi anche il sito http://www.noriparative.it). La prima cosa che il professionista della salute mentale deve fare in questi casi è cercare di capire perché la persona vive "in disaccordo" con se stessa. Si sente "sbagliata" o "senza un posto nella società"? E' in conflitto con i propri valori religiosi, della famiglia o della comunità? Ha paura di deludere i genitori? Il peso di sentirsi "difforme" la fa sentire "deforme"? Ha una rappresentazione negativa, sul piano affettivo e cognitivo, di come sarà il suo futuro di gay o di lesbica? Oltre a questo tipo di motivazioni, riconducibili alla convinzione di un'incompatibilità tra la realizzazione di sé come persona omosessuale e al tempo stesso come individuo mediamente felice, l'esperienza clinica spesso mostra come persistenti dimensioni conflittuali nel campo dell'identità sessuale appartengano al quadro più generale di un disturbo di personalità, con rappresentazioni di sé confuse e non integrate.

Alla luce di tutto questo, è evidente che un/a analista gay o lesbica che rivela il proprio orientamento sessuale a un/a paziente omosessuale può produrre un effetto di rinforzo affermativo e contribuire ad attenuare l'omofobia interiorizzata. Ma le implicazioni cliniche possono naturalmente essere molte altre: senza voler tentare un impossibile elenco, mi limito a ricordare alcuni possibili sviluppi. Lo smarrimento del paziente (omo o etero che sia) che, dando per scontata la "sanità" del suo terapeuta, ne dava per scontata l'eterosessualità; la dissonanza cognitiva e emotiva provocata da un terapeuta che tiene nascosta la sua omosessualità a un paziente che l'ha ampiamente "intuita" (da segnalare, per esempio, le interessanti dinamiche co-transferali che si possono sviluppare tra una paziente eterosessuale e un analista omosessuale).

Sicuramente dobbiamo sempre domandarci la "provenienza" della self-disclosure: è al servizio della relazione terapeutica o nasce da un bisogno del terapeuta? Sarà altrettanto utile comprendere perché e in quale momento della terapia viene sollecitata dal paziente, oppure perché il paziente non mostra alcun interesse rispetto alla sessualità del terapeuta (Guthrie, 2006). Nel primo caso possiamo trovarci di fronte, per esempio, a un paziente gay che cerca nel terapeuta solidarietà, conforto, un modello da seguire oppure una rassicurazione sul fatto che questo non lo stigmatizzerà e non proverà a "reindirizzarlo" verso l'eterosessualità; ancora a livello di ipotesi, nel secondo caso potremmo trovarci di fronte a un paziente che evita l'argomento per non prendere contatto con la propria omofobia interiorizzata, desiderando idealizzare il terapeuta immaginandolo eterosessuale. Non dimentichiamo infine che la riluttanza a comunicare al paziente il proprio orientamento sessuale, magari di fronte a domande o riferimenti precisi, può suggerire problemi irrisolti di omofobia interiorizzata, vergogna e imbarazzo nel terapeuta stesso (Bjork, 2004; Gabriel & Monaco, 1995; Isay, 1991).

Una delle critiche mosse più di frequente alla self-disclosure è che satura il campo analitico. Lavorare con il paziente sulle sue fantasie è certamente proficuo, ma è necessario anche capire quanto il "non detto" può andare a detrimento dell'onestà affettiva e della relazione. «Una posizione terapeutica che tenti sistematicamente di evitare le collisioni di soggettività – scrive Bromberg (2006) – è in ultima analisi vissuta dal paziente come disconfermante» (p. 141).

 

Sebastiano e Antonio

«Si può star seduti dietro al lettino, ma non ci si può mai nascondere dietro di esso!» (Lewis Aron, 1996, p. 114)

Sebastiano (voluto, da parte dell'autore, il nome del martire caro all'iconografia omosessuale? – «Perché li attenda alla porta del paradiso e interceda per loro, i gay contano su San Sebastiano»: Dominique Fernandez [1989, p. 149] sdrammatizza così secoli di iconografia omosessuale su questo ufficiale romano del III secolo, oriundo di Narbona, convertitosi al cristianesimo e condannato, durante le persecuzioni di Diocleziano, al supplizio delle frecce dei commilitoni; vedi anche Proust [1913, p. 137], Mann [1912, p. 84], Mishima [1958, p. 39]) esercita un'attività continua di monitoraggio aggressivo sull'orientamento sessuale del terapeuta. Dal resoconto clinico sembra di poter evincere che la condizione di "neutralità" rischia di funzionare come una sorta di barriera emotiva per il terapeuta stesso:

«Durante gli incontri chiede spesso, in maniera ossessiva e provocatoria, le mie opinioni su temi inerenti la sessualità, l'orientamento sessuale degli analisti nonché sulle mie capacità di comprendere pazienti gay. A seguito del mio tentativo di rimanere in una posizione di relativa neutralità nei confronti di queste domande, il paziente manifesta a volte l'intenzione di lasciare la terapia, esprimendo scetticismo sulla capacità del terapeuta di accoglierlo nella sua condizione di "diversità". Il paziente quindi, in questa fase della terapia, interpreta tale neutralità come un ennesimo rifiuto della sua condizione di "diverso"» (p. &&).

La decisione di attuare la disclosure nasce come tentativo di risolvere l'impasse analitica, cioè quel senso di stallo, insoddisfazione e ripetitività del processo provato da paziente e analista. Se un tempo le situazioni di impasse erano tendenzialmente attribuite a una "resistenza" del paziente, un approccio più intersoggettivo oggi incoraggia una maggior articolazione di questo tipo di esperienze: l'impasse viene vista come un aspetto sofferente della relazione, e le esperienze soggettive di paziente e analista possono diventare parte dell'enactment di aree inespresse del mondo interno del paziente, raggiungibili solo con una certa assunzione di rischio da parte di entrambi (Symington, 1983; Black, 2003; Colli & Lingiardi, 2009).

Analizzata alla luce delle conoscenze e competenze cliniche e personali in tema di omosessualità (non scontate in un analista eterosessuale, spesso vittima di omofobia, eterofilia o homoignorance; vedi Schwartz, 1993; Verghese, 1994), la situazione di impasse ha spinto Firetto a scegliere la disclosure. Preceduta, accompagnata e, credo, seguita, da una domanda (che in parte traspare dal resoconto clinico): come ricostruisce, Sebastiano, l'intreccio tra relazioni e rappresentazioni familiari, scoperta dell'omosessualità, scelta del sacerdozio, crisi vocazionale? Ecco, dal resoconto di Firetto, ciò che sappiamo:

«La madre, donna estremamente autoritaria e manipolatoria, intuendo l'omosessualità del figlio lo spinge a intraprendere una strada che possa salvaguardare la reputazione della famiglia rispetto ai parenti e al contesto sociale. Così, quando al termine dell'adolescenza Sebastiano decide di entrare in seminario, lei non manifesta alcuna contrarietà. Un modo, questo, per tenerlo sempre accanto senza la vergogna sociale di avere un figlio "diverso"» (p. &&).

«(…) forse uno dei conflitti di Sebastiano è tra la sua vera identità di omosessuale e il suo ruolo di prete che gliela ‘nasconde', sente questo conflitto come irriducibile. A causa di esso si sente pieno d'odio per il mondo, in quanto percepisce che aderire al suo ‘vero Sé' è una condizione di sofferenza rispetto al ruolo imposto dall'appartenenza alla comunità religiosa» (p. &&).

Il consigliere spirituale aveva proposto a Sebastiano un terapeuta "dichiaratamente cattolico", ma il paziente aveva rifiutato questa possibilità perché sentiva il bisogno di essere compreso in maniera "obiettiva". Temeva che il terapeuta "connotato in senso religioso" non fosse in grado di "capirlo pienamente". Perché Sebastiano cercava un terapeuta non cattolico? Che cosa significa per lui essere compreso "pienamente" e in maniera "obiettiva"? Fondamentale, dal mio punto di vista, indagare queste aree, in particolare le caratteristiche del terapeuta ideale "fantasticate" da Sebastiano prima della self-disclosure del terapeuta reale. Dopo la self-disclosure questo è quanto dice Sebastiano:

«La reazione di Sebastiano fu di stupore e di curiosità, disse che un po' lo aveva intuito e un po' lo aveva desiderato, nel senso che, a suo modo di vedere, forse con un terapeuta gay si poteva cercare di dare un senso alla sua sofferenza e soprattutto si sarebbe sentito più libero di parlare di certi contenuti delle sue esperienze. (...) Dal ritorno di Sebastiano in terapia, il rapporto tra noi è diventato più diretto e coinvolgente. Mi racconta anche aspetti intimi delle sue avventure sessuali, non temendo più che io lo giudichi negativamente o che lo disprezzi» (p. &&).

Cogliendo il bisogno del paziente di essere accolto nella sua "diversità", Firetto si rende conto del prezzo che era costretto a pagare per mantenere un'idea astratta di neutralità e decide di farne a meno, in favore di coinvolgimento più autentico. La reazione di Sebastiano sembra confermare i vantaggi di questa scelta. Si mostrano alcuni cambiamenti positivi:

«Sebastiano è riuscito a conseguire la laurea, ha presentato al vescovo la domanda di lasciare il sacerdozio e da quel momento è alla ricerca di un lavoro che gli consenta di affrancarsi definitivamente dall'appartenenza alla comunità religiosa (…). Adesso sente che può vivere la sessualità con meno sensi di colpa» (p. &&.

A conclusione del mio commento ripenso all'affermazione di Stephen Mitchell (1993) per cui «una buona tecnica psicoanalitica significa non tanto azioni corrette, quanto piuttosto un pensiero rigoroso, in un continuo processo di riflessione e riconsiderazione. Non esistono singole azioni cliniche corrette – anche se indubbiamente esistono singole azioni cliniche scorrette» (p. 231). Ovviamente è impossibile stabilire se, date le circostanze, la self-disclosure di Firetto fosse l'unica azione corretta possibile; mi sento però di affermare che non è stata un'azione scorretta. Per certi aspetti potremmo considerarla un intervento di riparazione a fronte di un ciclo montante di rotture dell'alleanza terapeutica (vedi Safran & Muran, 2000; Lingiardi & Colli, 2010).

Quel sentirsi "sbagliato dentro" fin dalla nascita di Sebastiano ha trovato finalmente diritto di cittadinanza nella terapia (come anche il percorso dal primo al secondo sogno sembra indicare). La neutralità, impiegata per non saturare il campo, aveva avuto l'effetto opposto di impedire al paziente di abitarlo.

 

Quali terapeuti per pazienti gay e lesbiche?

«La relazione analitica è fondata sull'amore della verità, ovverosia sul riconoscimento della realtà ed essa esclude ogni finzione e ogni inganno» (Sigmund Freud, 1936, p. 531)

«Un sano sviluppo mentale sembra dipendere dalla verità, come l'organismo vivente dipende dal cibo. Se la verità manca o è incompleta, la personalità si deteriora» (Wilfred Bion, 1965, p. 60)

Vorrei concludere con alcune osservazioni su un tema appena accennato: un paziente omosessuale può trarre più vantaggi da una psicoterapia con un terapeuta omosessuale oppure eterosessuale? Spesso, infatti, i pazienti che appartengono a minoranze discriminate scelgono terapeuti appartenenti a queste stesse minoranze nella speranza di trovare maggior conforto e comprensione, per esempio riguardo allo stigma (subìto e percepito), al senso di espulsione dalla famiglia d'origine, alle difficoltà nel mantenimento dell'autostima. Gay e lesbiche, per esempio, possono ritenere che l'omosessualità del terapeuta possa garantire un atteggiamento non patologizzante o "riparativo". La storia degli atteggiamenti psicoanalitici verso l'omosessualità (Drescher, 1993; Capozzi, Lingiardi & Luci, 2003, 2004) ci deve invitare a tenere in seria considerazione questa propensione, senza stigmatizzarla, ancora una volta aprioristicamente, come "difensiva". Mettiamola in questi termini: una donna andrebbe volentieri in terapia da un terapeuta che aderisce a teorie misogine o maschiliste (invidia del pene, masochismo primario, ecc.?). Al tema del modello teorico si aggiunge quello della conoscenza/competenza su temi relativi all'omosessualità. Sono molte le storie, quasi sempre rimaste a livello aneddotico o di comunicazione personale, di pazienti omosessuali che la psicoanalisi ha tentato di "cambiare", così come sono molte quelle di medici o psicologi omosessuali "dissuasi" dall'intraprendere carriere psichiatriche o psicoanalitiche (vedi ad esempio Migone, 2007). E frequenti sono anche le storie di pazienti che, in difficoltà con la comprensione/accettazione dei propri desideri, hanno trovato terapeuti che, anziché interrogare tale difficoltà (compresi gli elementi di "omofobia interiorizzata"), hanno proposto soluzioni collusive e falsificanti. Un noto psicoanalista guarda perplesso un ragazzo gay che gli ha chiesto di iniziare un'analisi e gli dice: "Sa, l'omosessualità è un coperchio, nasconde sempre qualcosa". Un giovane paziente, angosciato dalla comparsa di fantasie omosessuali, si sente dire: "Il problema è che lei ha paura delle donne". Un adolescente racconta alla sua terapeuta di essersi innamorato di un compagno di classe e questa, con un sorriso rassicurante, gli risponde: "Stia tranquillo, succede a tutti durante l'adolescenza. Vedrà che presto si innamorerà di una bella ragazza!". Ecco la risposta ricevuta da una donna omosessuale alla fine di un colloquio di valutazione: "Mi dispiace, ma non posso prenderla in analisi perché non mi intendo di omosessualità" (come se l'omosessualità fosse una malattia esotica). E questa è una frase pronunciata da un collega nel corso di un seminario pubblico: "Tutti abbiamo una componente omosessuale, ma dobbiamo riuscire a sublimarla!". Migone (2007, p. 93) racconta che durante un seminario della scuola psicoanalitica che frequentava a New York alla fine degli anni 1970 sentì addirittura dire da un analista, che era anche il direttore della scuola, che "gli omosessuali sono psicotici, in quanto confondono le donne con gli uomini, quindi hanno un disturbo delirante dell'immagine corporea". Gli psicoanalisti hanno impiegato molti anni per capire che frasi e atteggiamenti come questi danneggiano, oltre che la psicoanalisi, anche l'equilibrio psichico delle persone gay/lesbiche.

Le preferenze e i valori dell'analista devono essere oggetto di attenta riflessione. Solo ora iniziano a diffondersi una sensibilità e una competenza capaci di riconoscere l'impatto, più o meno intenzionale e consapevole, delle teorie implicite dell'analista sulla conoscenza di sé da parte del paziente e sull'acquisizione di un senso integrato della propria identità. Tuttavia, ricerche su ampia scala (circa 2.000 psicologi) come quella condotta con la collaborazione di alcuni Ordini regionali degli Psicologi (vedi Lingiardi & Nardelli, 2011) forniscono dati su cui vale la pena riflettere: il 24% dei partecipanti si sente «per nulla preparato sulle tematiche cliniche e teoriche relative all'omosessualità», solo il 73% ritiene che l'omosessualità sia «una variante normale della sessualità» (secondo la definizione dall'Organizzazione Mondiale della Sanità), il 63% sostiene che «possa essere utile un intervento psicologico rivolto alla modificazione dell'orientamento sessuale». I bias concettuali a partire dai quali si instaurano pratiche terapeutiche dannose e inefficaci per pazienti omosessuali provengono spesso dalla stessa formazione dei terapeuti e dalla cultura che storicamente veicola valori eteronormativi. La maggior parte dei corsi di laurea fornisce una preparazione minima sui temi relativi alle omosessualità, rarissimi sono i libri di testo che descrivono lo sviluppo psicologico "normale" degli individui omosessuali, pochi sono i professionisti che hanno ricevuto una formazione appropriata su queste tematiche (Pachankis & Goldfried, 2004).

Le cosiddette terapie "affermative" costituiscono un tipo di intervento rivolto alle persone gay, lesbiche e bisessuali che trae origine dalle principali evidenze empiriche relative all'omosessualità e dalle posizioni delle principali associazioni della salute mentale. Potrebbe essere visto come un punto di vista speculare rispetto alle cosiddette teorie e le tecniche "riparative", ma non è propriamente così. Il fattore contrapposto è senz'altro la visione dell'omosessualità come variante normale della sessualità piuttosto che come una patologia o un sintomo. Tuttavia il termine "affermative" non deve far pensare a un approccio direttivo finalizzato all'affermazione aproblematica dell'omosessualità, quanto piuttosto un assetto di ascolto psicologico libero dal pregiudizio e capace di tenere conto delle specificità della persona gay o lesbica che chiede aiuto. L'American Psychological Association (2009) incoraggia questo genere di approccio basandosi su alcuni assunti empiricamente dimostrati: a) l'omosessualità in quanto tale costituisce una variante normale e positiva della sessualità umana e non rappresenta il sintomo di un disturbo dello sviluppo; b) l'omosessualità e la bisessualità sono stigmatizzate e le conseguenze negative dello stigma possono coprire l'intera durata della vita di una persona; c) gay, lesbiche e bisessuali possono avere delle vite felici, formare delle relazioni stabili e costruire delle famiglie esattamente come le persone eterosessuali; d) non esistono prove scientifiche che riconducano lo sviluppo di un orientamento omosessuale a traumi o a dinamiche familiari disfunzionali. L'approccio affermativo non costituisce un metodo terapeutico a sé stante, ma si basa su una serie di conoscenze, atteggiamenti e abilità che il terapeuta deve sapere esprimere nella propria pratica clinica a prescindere dal modello teorico.

Allo scopo di indagare approfonditamente i fattori implicati nell'efficacia di queste psicoterapie, Susan Pixton (2003) ha condotto uno studio sperimentale reclutando un campione di gay e lesbiche che avevano seguìto un'esperienza terapeutica con caratteristiche affermative. Attraverso un questionario e interviste semistrutturate ha raccolto le risposte dei partecipanti e, dopo averle sottoposte ad analisi qualitativa, ne ha ricavato sei categorie che riassumono i fattori vissuti dai pazienti come benefici. 1. "Comunicazione di una visione non patologica dell'omosessualità" (il terapeuta non considera l'omosessualità in quanto tale un problema, e anzi riconosce le problematiche associate a credenze erronee riguardanti l'omosessualità); 2. "Lo spazio terapeutico" (esperienza da parte del paziente di uno spazio sicuro e libero da pregiudizi in cui poter parlare apertamente di qualsiasi argomento ed esplorare la propria sessualità); 3. "Cosa il terapeuta porta nella relazione" (caratteristiche del terapeuta percepite dal paziente come utili nel facilitare l'esperienza di affermazione); 4. "La relazione terapeutica" (esperienza di vicinanza, intimità e connessione empatica che il paziente vive nella relazione con il terapeuta); 5. "La presenza del terapeuta e l'umanità del paziente" (capacità del terapeuta di essere presente come persona reale all'interno della relazione e di rispondere adeguatamente ai bisogni del paziente che si sente riconosciuto nella propria umanità e unicità); 6. "Il terapeuta ha una prospettiva olistica" (approccio che non scinde la sessualità, ma ne promuove una visione integrata nella complessità generale dell'individuo). I dati emersi mostrano, tra le altre cose, come l'orientamento sessuale del terapeuta non sia associato con le capacità e le competenze necessarie per gestire efficacemente la relazione terapeutica.

Lavorare con un terapeuta dichiaratamente omosessuale può presentare, a seconda dei casi, vantaggi e svantaggi. Tra i vantaggi abbiamo una maggior facilità di condivisione di conoscenze ed esperienze associate all'essere lesbica o gay e, laddove il terapeuta abbia un'identità gay o lesbica sicura, la disponibilità di un modello a cui fare riferimento. Tra i possibili svantaggi: la credenza erronea di condividere esperienze e caratteristiche personali solo sulla base del comune orientamento sessuale; il rischio di un'eccessiva identificazione da parte del paziente o del terapeuta; una collusione inconscia nell'evitare di affrontare eventi o affetti dolorosi riguardanti il percorso di coming out e le dimensioni del minority stress. Anche se in certi casi la possibilità di lavorare con un/a terapeuta apertamente gay o lesbica può essere d'aiuto, l'orientamento sessuale del terapeuta non rappresenta il fattore più significativo nel determinare il risultato clinico. In conclusione, non credo sia necessario "inventare" un tipo particolare di terapia per le persone omosessuali, né credo che l'omosessualità del terapeuta sia una sufficiente garanzia di un "ascolto rispettoso" (Nissim Momigliano, 2001) e libero da pregiudizi. Ancora con Mitchell (1981), «se l'omosessualità fosse considerata alla stregua di qualunque altro materiale analitico, ci renderemmo conto che le fantasie e i comportamenti omosessuali riflettono una molteplicità di temi e di significati, l'analisi dei quali permette al paziente di operare le proprie scelte, in modo libero rispetto a fattori d'influenza espliciti o impliciti» (p. 77).

Lo sforzo comune dovrebbe essere diretto a mettere da parte, per quanto possibile, le componenti ideologiche, politiche, storiche e personali (o almeno ad avere ben presenti quali sintesi private di queste componenti guidino il proprio lavoro), per dare spazio e parola alle esperienze dei pazienti e alla loro elaborazione, dopo aver fatto chiarezza sui propri pregiudizi e sulla propria disponibilità a cogliere ciò che di nuovo i pazienti offrono alle nostre conoscenze (in una ricerca sui pregiudizi in ambito psicoanalitico, Lilling & Friedman [1995] hanno chiesto a un campione di psicoanalisti di valutare storie identiche tranne che per l'orientamento sessuale dei pazienti: gli intervistati hanno mostrato una tendenza a diagnosticare problemi psicologici più frequenti e gravi quando veniva specificato che il/la paziente era omosessuale). Nella storia della psicoanalisi sono stati fatti errori significativi, teorici e clinici. Nel dibattito internazionale la psicoanalisi li sta riconoscendo, promuovendo preziosi insight che contribuiscono all'avanzamento della psicoanalisi stessa. Il lavoro con pazienti gay e lesbiche non teso a indagare l'eziologia dell'omosessualità, ma aperto a un'esplorazione analitica autentica, sta arricchendo la riflessione dinamica sulle proprie convinzioni e pratiche: per esempio, i vantaggi e i rischi della self-disclosure dell'analista, il modo in cui alcuni preconcetti teorici limitano o inibiscono l'ascolto clinico, l'efficacia delle risposte basate o meno sull'esperienza, l'impatto del trinceramento del terapeuta dietro a preconcetti culturali, il ruolo di una diversa appartenenza subculturale di paziente e analista, ecc. La prospettiva, dunque, può essere utilmente ribaltata valutando non più l'efficacia della psicoanalisi sull'omosessualità, ma gli effetti delle culture omosessuali sulla psicoanalisi in termini di autoriflessione e affinamento della tecnica psicoanalitica.

 

Nota 1:

Nel suo pionieristico, ma poi classico, Epistemology of the Closet, Eve Kosofsky Sedgwick (1990) analizza le dimensioni identitarie e relazionali del closet omosessuale e dunque dell'azione di svelamento (o meno) della propria omosessualità. «Si tratta di un'espressione fortemente connotata in termini spaziali, poiché l'atto di "svelarsi" viene espresso topologicamente dalla metafora linguistica inglese del coming out (come versione abbreviata di coming out of the closet), che riferisce di un'uscita da una stanza segreta, privata, verso uno spazio esterno» (Antosa, 2011, p. 21). Riflettendo sui livelli molteplici di lettura e interpretazione di questa "azione", Sedgwick dimostra che l'"uscita dalla stanza privata" della propria omosessualità in realtà «non crea un passaggio di stato dall'ignoranza alla conoscenza, marcando nettamente un'opposizione binaria (in vs. out), ma implica una vera e propria economia del segreto e della rivelazione che struttura in modo complesso sia lo stesso closet omosessuale che le dinamiche di potere che lo organizzano e lo racchiudono al tempo stesso». è interessante riprendere queste note ai fini del nostro discorso, per esempio dove Sedgwick (1990) afferma che: «le relazioni del closet – le relazioni fra ciò che è noto e ciò che è ignoto, ciò che è esplicito e ciò che è implicito circa la definizione omo/eterosessuale – hanno il potenziale per essere particolarmente rivelatrici circa gli atti linguistici più in generale» (p. 35). Il silenzio, in questo senso, è a tutti gli effetti un atto linguistico performativo, così come la disclosure: «Lo stesso "stare nel closet" è una performance inaugurata come tale da quell'atto della parola che è il silenzio; non un silenzio particolare, ma un silenzio che si arricchisce a singhiozzi di particolari, in relazione al discorso in cui si inserisce e che lo caratterizza in maniera diversa di volta in volta» (ibid.). Pertanto, come afferma Silvia Antosa (2011), «in quella che si potrebbe definire una vera e propria economia del sospetto e della rivelazione si aprono scenari diversificati e mutevoli, in cui tra il sapere – o il ritenere di sapere, o credere di sapere che qualcuno sappia, ecc. – e il non sapere – o il non voler sapere o il credere che qualcuno non sappia o non voler sapere che invece qualcuno sa e potrebbe utilizzare quest'informazione per qualsiasi finalità – intercorrono, nei diversi contesti, delle diverse gestioni del segreto attraverso l'elaborazione di strategie finalizzate a preservarlo o, invece, a svelarlo (in modo parziale o totale)» (p. 21). Così, il fatto di essere "svelata", "taciuta" o "nascosta", agisce sull'omosessualità (del paziente, del terapeuta, del genitore, del figlio, del collega, dell'insegnante, del politico, ecc.) facendone un oggetto psichico e relazionale di volta in volta diverso.

 

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Web Editor: Paolo Migone